LA DELOCALIZZAZIONE DELLE IMPRESE CAPITALISTICHE,
LE SUE ENORMI CONTRADDIZIONI
E LA RISPOSTA OPERAIA
Negli ultimi anni ogni forma di contrattazione
aziendale si basa sul ricatto più esplicito: accettare ogni forma di vessazione
salariale e normativa o assistere impotenti al trasferimento all’estero dell’azienda
o dei reparti in contestazione. Il sindacato diffonde la sfiducia e suggerisce
di accettare, magari attenuato, il ricatto.
La bruciante sconfitta dei lavoratori Siemens che
nel 2004 accettarono pesantemente il ritorno alle 40 ore senza incrementi
salariali rischia di costituire il cavallo di Troia a partire dal quale il
proletariato europeo rischia un ulteriore, pesante arretramento.
Già il 13 luglio dell’anno scorso la
“progressista” Repubblica sferza
il governo reazionario a fare di più e più in fretta sulla via
dell’abbattimento di ogni remora a demolire le conquiste operaie dei decenni
precedenti: “in Gran Bretagna deroghe già possibili mentre Parigi e Copenaghen
preparano le controriforme - l’Europa lavora di più, Italia al palo-”
Per comprendere fino in fondo il significato di
questa tendenza del capitalismo moderno, riteniamo che sia necessario fare
preliminarmente chiarezza almeno su di un punto: la famigerata globalizzazione,
di cui la delocalizzazione delle attività produttive è uno degli aspetti più
eclatanti, non è assolutamente la nuova frontiera del capitalismo, ma è sempre
stata presente tra gli elementi fondamentali
che hanno caratterizzato il flusso del capitale finanziario e delle attività
produttive che ne determinavano il valore reale sin dalla prima fase della
espansione capitalistica.
è peraltro indubbio che le nuove condizioni
prodottesi con l’afflosciarsi del sistema produttivo dei paesi revisionisti e con il passaggio di campo della Cina ex
socialista hanno dato al fenomeno un’ampiezza tale da costituire una pesante
minaccia alle condizioni di vita di milioni di proletari in tutto il mondo
industrializzato.
Facendo leva sui due fattori sinergici della enorme
disoccupazione creatasi nei paesi ex revisionisti e del differenziale di cambio
monetario, l’imperialismo gioca con i due mazzi della delocalizzazione delle
imprese da una parte e, per i settori non delocalizzabili (ad es. i cantieri
edili), dell’ impiego di manodopera clandestina, o meglio, come vedremo,
apparentemente legale.
Il grimaldello per sfruttare selvaggiamente
manodopera straniera senza rischiare denunce o altri sgradevoli inconvenienti è
contenuto nella legge Turco-Napolitano (1998) e si chiamano “contratti
temporanei di distacco”. Consistono nell’associazione di un’azienda italiana
con una dell’Est europeo che “presta” la sua manodopera all’azienda italiana
impegnandosi a pagare nel paese d’origine i contributi previdenziali (che
quindi non verranno mai pagati, ma la legge italiana è contenta così). Inoltre
le ore dichiarate (ad es. alla Cassa edile) sono una minima parte di quelle
effettivamente lavorate, ed il rispetto dei contratti collettivi è ampiamente
aggirato emettendo buste paga con
“acconti” il cui saldo non avverrà mai.
Ancora una volta un articolo di legge, si badi bene,
del famigerato governo progressista, studiato ad hoc per consentire il più
bestiale sfruttamento camuffato da rispetto della legalità.
Ma se questa “delocalizzazione inversa” contribuisce
non poco a fare crescere vertiginosamente il profitti d’impresa, è nella
delocalizzazione vera e propria che si annidano, da una parte, colossali
profitti, dall’altra spaventosi pericoli per l’intero assetto produttivo.
Tornando al famigerato “teorema Siemens”, ci
accorgiamo che esso , pur costituendo sopratutto una clamorosa vittoria di
principio del padronato internazionale, è ben lungi dal risolvere il problema
dei costi di produzione del sistema capitalistico occidentale.
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