Il rinnovo
contrattuale dei metalmeccanici
tra
“moderazione” e “compatibilità”
I
signori della concertazione trovano l’unità sulla moderazione salariale mentre
la busta paga si è ridotta del 30%! “In tre anni i lavoratori dipendenti hanno
perso oltre 1.380 euro, a causa dell’incremento dei prezzi e dei bassi aumenti
salariali. E’ quanto stimato in una ricerca dell’Ires Cgil.
L’istituto
ha calcolato che tra il 2002 e il 2004 la cifra perduta oscilla tra 1.269
(sulla base di un’inflazione al 2,3%), e 1.380 euro (inflazione al 2,8%). In
particolare, nel 2002-2004 un lavoratore con retribuzione media di 22.000 euro
ha perso 864 euro a causa di aumenti salariali inferiori alla crescita dei
prezzi e 516 euro per la mancata restituzione del fiscal drag. Il dato tiene
conto di tutto il lavoro dipendente, escluso quello agricolo e quello
pubblico”. (Fonte Cgil).
Dopo
13 anni di “politica dei redditi”, di riduzione secca dei salari, degli
stipendi e delle pensioni, ancora rinnovi contrattuali che non tengono conto
dello stato reale dei redditi dei lavoratori. Da quando Cgil, Cisl, Uil,
padroni e governo sancirono l’eliminazione della scala mobile è iniziata una
lenta ma continua discesa verso la povertà, che nessun contratto nazionale
potrà mai arrestare finchè valgono le attuali “regole”. Il principale comparto
dell’industria italiana, il settore metalmeccanico, è ancora alle prese con un
rinnovo contrattuale tardivo e del tutto inadeguato.
Un
tempo il contratto dei metalmeccanici costituiva un momento importante nella
vita del nostro Paese, era il contratto intorno a cui ruotavano i miglioramenti
dei diritti e del salario di tutti i lavoratori. E quando i metalmeccanici
scioperavano, cadevano anche i governi. Oggi non è più così ed occorre
domandarsi perché padroni e governi non hanno più “paura” dei metalmeccanici,
che qualcuno subdolamente ma tenacemente tenta di “addomesticare”.
Mentre
i prezzi dei generi di prima necessità sono aumentati almeno del 20% nel corso
degli ultimi due anni, i salari si sono svalutati e l’impoverimento dei
lavoratori, ed in particolare degli operai, è una realtà che non può essere più
nascosta. L’inflazione programmata è un “atto di fede” dal lato del movimento
reale dei prezzi, ma rappresenta un limite invalicabile per le richieste
contrattuali ! I prezzi delle merci che entrano nel consumo normale della
classe lavoratrice sono aumentati del 35% dall’introduzione dell’euro. Essa ha
messo a posto commercianti grandi e piccoli, gestori di servizi sociali, banche
e tutti coloro che manovrano tariffe e prezzi; i soli a rimetterci seriamente
sono stati gli operai e i lavoratori a più basso salario. Ad una svalutazione
repentina dei salari, che non si era vista dal dopoguerra, occorreva rispondere
con una offensiva rivendicativa altrettanto decisa. Ed invece si è fatto un gran
parlare ed alla fine la montagna di trattative “unitarie” e di studi
approfonditi sull’economia delle aziende, ha partorito il classico topolino.
La
piattaforma concordata tra Fiom, Fim, e Uilm sulla richiesta salariale del
rinnovo contrattuale per il biennio 2005-2006 (scaduto il 31/12/2004 !) consta
di 105 euro lordi di aumento, riparametrati al 5° livello retributivo, più 25
euro nei casi in cui non esistesse la contrattazione aziendale da almeno 8
anni. Questi 25 euro in più sono richiesti come elemento di “solidarietà” per i
lavoratori presenti in aziende scarsamente sindacalizzate; ma, appunto per
questo, ci chiediamo, come si farà ad ottenere che i padroni elargiscano in più
questi soldi ai loro dipendenti ? La maggior parte dei lavoratori non è inquadrata
al 5° livello, bensì al 4° e al 3° e sempre più al 2° (una volta quasi
scomparso, ma oggi è il livello in cui prevalentemente vengono inquadrati i
giovani con contratto a termine); ciò significa che, tolte le tasse, dei 105
euro ne rimangono, se “va bene”, rispettivamente 70, 67 e 56, da dividere
nell’arco di 24 mesi : una miseria! Vergogna!
Che
queste richieste siano assolutamente lontane dalle reali esigenze dei
lavoratori, lo sanno perfettamente gli stessi “mandarini” sindacali che hanno
avuto la spudoratezza di dichiarare il 15 febbraio scorso davanti a 5000
delegati riuniti a Milano che: “…gli operai italiani lavorano in media 160 ore
in più all’anno e prendono il 30% in meno di salario rispetto al resto
d’Europa…” . Inoltre, “prendendo in esame l’arco di tempo tra il 1995 ed il
2002, si ricava come il costo del lavoro sia significativamente più basso in
Italia che in molti altri paesi industrializzati. Fatta uguale a 100 l’Italia,
nel 2002 si ha 111 per la Francia, 169 per la Germania, 149 per gli Usa, 130
per il Giappone e 82 per la Spagna” (Gianni Ferrante, responsabile ufficio
economico Fiom Cgil).
A
conti fatti - se il salario mensile medio di un metalmeccanico è di 1000 euro
circa - nella piattaforma rivendicativa bisognava necessariamente chiedere
almeno 300 euro di aumento effettivo, reale; non solo, ma bisognava chiedere
anche una forte riduzione dell’orario di lavoro; ma quando mai !!
Perciò,
va certo denunciato ormai, e senza mezzi termini, il ruolo antioperaio della
“socialdemocrazia” sindacale che fa “marcia indietro” rispetto alla precedente
ipotesi contrattuale, nella quale si poneva obiettivi più rispondenti alle
esigenze dei lavoratori (i famosi 135 euro “uguali per tutti”, in opposizione
ai 90 euro riparametrati al 5° livello richiesti da Cisl e Uil ) che nei fatti,
però, poi tradiva apertamente al
momento di stabilire le iniziative di lotta per ottenerli e per i quali si era
impegnata di fronte ai lavoratori; confermando così la sua natura
collaborazionista, “particolare” e sottile nell’ingannare proditoriamente ed ormai
“regolarmente” i lavoratori (vedi il recente rinnovo contrattuale degli
aeroportuali delle gestioni !!).
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