NAZIM HIKMET, POETA COMUNISTA
Quest'anno
l'Unesco ha deciso di dedicare a Nazim Hikmet, per il centenario della nascita,
un programma di iniziative. Ciò non può che farci piacere perché Hikmet appartiene
alla cultura ed all' orgoglio proletario. Ma in realtà cosa sono chiamati a
celebrare gli intellettuali della borghesia, spinti della crescente celebrità
di questo grande artista le cui opere sono ormai tradotte in tutte le lingue
del mondo? La classe dominante (ed in particolare il governo turco) vorrebbe
ridurre Hikmet a "poeta dell’ amore romantico",
ben sapendo che la sua opera letteraria
riflette la sua fermezza rivoluzionaria. Vorrebbe tacere il fatto che Nazim
Hikmet era prima di ogni altra cosa un comunista.
Operazione
meschina poiché l' arte che ha creato, la sua
semplicità e potenza espressiva, la sua chiarezza e serenità, sono inseparabili
dalla sua coscienza di classe. La sua vita di militante rivoluzionario e la sua
poesia formano un tutt’uno.
«Sono uno
scrittore impegnato - dichiarò una volta
- credo che ogni scrittore, anche se moltoo ermetico, anche se dichiara di non
essere impegnato, non può non essere tale. È solo una questione di gradi, di
coscienza. L'uomo ama, l'uomo mangia, l'uomo ha fame, l'uomo ha paura, l'uomo
lotta, l'uomo spera; allora, se io scrivo per le speranze dell'uomo, o per l'amore dell'uomo, o per la sua fame, o per la sua
nostalgia, scrivo tutto questo da un determinato punto di vista. E non si può
scrivere da un punto di vista astratto, si scrive sempre da un punto di vista
concreto. Ogni scrittore, dunque, è impegnato. Io sono marxista, sono comunista».
Avrete un bel
cercare la metafisica e il decadentismo nelle poesie di Nazim. Troverete invece
la dialettica marxista,
che non è un metodo freddo ed impersonale essendo imbevuto di
vero interesse per l’ essere umano, per
il popolo che soffre. Troverete un vigore, una forza d'animo, una gioia di
vivere, un ottimismo rivoluzionario che sorprende anche chi conosce la dura
esistenza dell' autore.
Nelle poesie
di Nazim non ci sono personaggi ideali, immaginari. Ci sono donne e uomini
reali, così come sono, non come si vorrebbe che fossero. C'è l'uomo con tutti i
suoi difetti ed i suoi slanci, l’ uomo come potrebbe
diventare una volta realizzato il mondo nuovo della solidarietà e della
uguaglianza.
Hikmet questi
principi li
aveva appresi ben presto nella sua militanza.
Sentite cosa
diceva da giovane: «Era necessario, a quanto pare, che passassi
nell'Unione Sovietica. Era la fine del 1921. Fui mille volte
più stupito, e sentii un amore e un'ammirazione cento volte più forti,
perché avevo scoperto, in quel 1921-22, una carestia cento volte più terribile,
e delle cimici cento volte più feroci, e una lotta contro tutto un mondo cento
volte più potente, e una immensa speranza, un'immensa gioia di vivere, di
creare. Ho scoperto tutta un'altra umanità».
Quegli stessi
principi, quello stesso entusiasmo Hikmet li ha continuati a coltivare con un
impegno che non è mai venuto meno nonostante le persecuzioni, il carcere, la
tortura, l'esilio, pagando assai cara la sua coerenza.
Cominciò a
pagare nel 1924, quando rientrato in Turchia e, condannato per la sua attività
politica a quindici anni di carcere, scappò di nuovo a Mosca, dove terminò gli
studi universitari e continuò l'attività poetica (sempre rigorosamente in
turco, sebbene parlasse perfettamente il russo) e la frequentazione degli
intellettuali sovietici (Majakovskij, Esenin).
Nel 1928 tornò
clandestinamente in Turchia e lì rimase ventitre anni, in bilico perenne tra la
clandestinità e la galera. Diciassette di quei ventitre li passò in una cella,
ma complessivamente la borghesia turca - che ora gli restituisce ipocritamente
la cittadinanza - riuscì ad appioppargli cinquantasei anni di
prigione, cercando di annientarlo fisicamente e psicologicamente.
Vi sarebbe morto se il
suo caso non fosse stato portato all'attenzione di tutto il mondo da una
campagna internazionale promossa da un comitato con Tristan Tzara, Picasso,
Sartre ed altri.
Pablo Neruda,
divenuto amico di Hikmet, ne raccolse una testimonianza: «mi ha detto che è
stato costretto a camminare sul ponte di una nave fino a sentirsi troppo debole
per rimanere in piedi, quindi lo hanno legato in una latrina dove gli
escrementi arrivavano mezzo metro sopra il pavimento... Il
mio fratello poeta ha sentito le sue forze mancare: i miei aguzzini
vogliono vedermi soffrire. Resiste con orgoglio. Comincia a cantare: all'inizio
la sua voce è bassa, poi sempre più alta fino a urlare. Ha cantato tutte le
canzoni, tutti i poemi d'amore che riesce a ricordare, i suoi stessi versi, le
ballate d'amore dei contadini, gli inni di battaglia della gente comune. Ha
cantato qualsiasi cosa la sua mente ricordasse. E così
ha vinto i suoi torturatori».
Nonostante i
ripetuti arresti e processi, Hikmet non smise mai di scrivere. Se gli
toglievano carta e penna elaborava le sue poesie a memoria e le faceva imparare
a chi andava a trovarlo. Riuscì persino a far pubblicare qualcosa in patria.
Le iniziali
pubblicazioni gli valsero una condanna "per aver svolto propaganda
comunista nella Marina e nell' Esercito turco".
La prima volta
venne liberato quasi subito, ma con la successiva raccolta di poesie, non gli
andò altrettanto bene: fu condannato da un tribunale militare a ventotto anni
di carcere.
Dal 1938, e
fino al 1950, le porte del carcere restarono sbarrate: per il compagno, non per
la sua poesia. I versi di Hikmet
sembravano aggirarsi per
Allo scoppio
della seconda guerra mondiale
A lui, al
comunista amante della curiosità e della scoperta, non davano altro da leggere
che
Allo stremo
delle forze Hikmet iniziò uno sciopero della fame, nel 1949, per protestare
contro le disumane condizioni carcerarie che pativa da più di dieci anni.
Intanto il movimento di opinione a favore della sua causa diventava sempre più forte, proteste al governo turco giungevano dagli
intellettuali democratici di tutti i paesi.
Non che le
proteste degli intellettuali abbiano mai avuto un peso
politico consistente, ma ci sono momenti in cui per questioni di immagine e di
diplomazia internazionale un regime sente di dover salvare la faccia. Così
Hikmet venne scarcerato nel luglio del 1950. Fuori, a
casa, trovò la moglie Munevér che lo aspettava. A lei Hikmet aveva dedicato,
dal carcere, poesie di struggente bellezza. Poesia dove la donna amata riassume
in sé ogni cosa, il suo paese, la sua lotta, la passione per la libertà e la
giustizia, la speranza, la vita. Una perfetta fusione tra sentimenti e impegno
politico.
Ma il tempo
che Hikmet passò a casa, con la sua compagna, fu breve. Perennemente
controllato dalla polizia, con la spada di Damocle di un nuovo arresto sulla
testa, minacciato dal terrorsimo fascista, con una salute ormai malferma -
nonostante avesse ancora l'aspetto di un leone - non poteva rischiare ancora.
Pochi mesi
dopo la sua liberazione prese, di nascosto, la via dell'esilio. La moglie e il
figlio che doveva nascere non poterono seguirlo per dieci anni. Di nuovo la
separazione dalla casa, dalla famiglia, dal paese che amava.
All'inizio
Hikmet tornò a Mosca, la sua seconda patria, dove aveva conosciuto Lenin che
era stato per lui il padre ideale e il rivoluzionario esemplare. Poi viaggiò
moltissimo, nell' Europa dell'Est e dell'Ovest; venne
in Italia diverse volte, andò a Cuba (cui dedicò il poemetto La conga con
Fidel); fu a decine di conferenze stampa, interviste, congressi e convegni,
sempre portando la sua testimonianza di uomo di partito.
Durante una
delle tante uscite pubbliche, dopo alcune domande che sentì come provocatorie,
all'improvviso divenne rosso di collera: «Voi vorreste insegnare la libertà
dei vostri padroni - gridò - a me che l'ho provata nel corpo e nello
spirito? Io sono stato cacciato dalla mia patria soltanto perché ero reo di
amare la verità e di scriverla nelle mie poesie». Prese fiato, si fece
portare un bicchiere d'acqua e concluse: «Mi piace bere l'acqua così fredda,
tutta d'un fiato perché è uno dei desideri che ho patito di più in carcere. Mi
dà la certezza, un bicchiere d'acqua bevuto così, di essere libero». A
proposito di semplicità e potenza.
Negli ultimi
dieci anni di esilio e di vita Hikmet scrisse molto, senza darsi troppa pena
della perfezione formale. La poesia era sempre stata, per lui, una modalità
naturale della comunicazione, un semplice strumento del colloquio tra uomini.
Si realizzava solo nel momento in cui diventava un mezzo per essere con gli
altri e in mezzo agli altri, libero dalle vecchie convenzioni letterarie: è per
questo che le sue poesie arrivano facili al cuore del lettore, vi entrano come
un amico che si conosce da tempo, con il quale si può parlare di tutto.
«Penso - diceva
- che la poesia debba essere innanzi tutto utile...
utile a tutta l'umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona.
Utile a una causa, utile all'orecchio... Voglio essere
capito e letto dal maggior numero possibile di persone, ai più vari livelli di
cultura, nei più diversi stati d'animo, dalle prossime generazioni. Voglio
essere traducibile per i popoli più diversi. Credo che la forma sia perfetta quando dà la possibilità di creare il ponte più
solido e comodo tra me, poeta, e il lettore. Detesto non solo le celle della
prigione, ma anche quelle dell'arte, dove si sta in pochi o da soli. Sono per
la chiarezza senza ombre del sole allo zenit, che non nasconde nulla del bene e
del male. Se la poesia regge questa gran luce, allora è vera poesia».
Ecco chi era
Nazim Hikmet, poeta comunista che non ha mai abbandonato la sua classe ed il
suo popolo, spirito ribelle ed indomabile combattente per il socialismo. Un
poeta che rimarrà con noi ben più dell' anno che gli
ha dedicato l' Unesco.
Le vostre mani e le loro
menzogne
Le
vostre mani austere come pietre,
meste come nenie intonate in prigione,
massicce e
enormi come animali strani,
le vostre
mani simili a volti crucciati di bimbi affamati.
Le
vostre mani rapide e solerti come api,
pesanti come
seni colmi di latte,
valorose come la
natura,
le vostre
mani che celano una familiare tristezza sotto la ruvida pelle.
Il mondo
non si regge sulle corna dei buoi,
il mondo è
retto dalle vostre mani.
O
uomini, uomini miei!
Vi
nutrono di menzogne,
mentre
affamati
avete bisogno
di pane e carne.
E senza
aver neppure una volta mangiato a sazietà
Ad una
tavola coperta di bianca tovaglia
Abbandonate
questo mondo
E i suoi
alberi carichi di frutta.
O
uomini, uomini miei!
Soprattutto
voi dell' Asia, del Medio e Prossimo Oriente,
delle isole
del Pacifico e della mia terra,
che
superate il settanta per cento del genere umano,
antichi e
riflessivi, siete, come le vostre mani
e come le
vostre mani giovani e curiosi ed entusiasti.
O
uomini, uomini miei!
Voi dell' Europa, voi dell' America
Siete
audaci, siete vigilanti,
indulgenti siete
come le vostre mani,
e come le
vostre mani facili all' inganno, facili all' illusione…
O
uomini, uomini miei!
Se
mentiscono le antenne,
se le
tipografie mentiscono,
se
mentiscono le insegne sui muri e gli avvisi del giornale,
e se
mentiscono sul bianco schermo le nude gambe delle danzatrici,
se
mentiscono le preghiere,
se i sogni
mentiscono,
se
mentiscono le nenie,
se
mentisce il suonatore nella taverna,
se dopo
una giornata disperata mente nella notte il raggio di luna,
se
mentiscono le parole,
se
mentiscono i colori,
se le voci
mentiscono,
se tutti
coloro che sfruttano il lavoro delle vostre mani
ed ogni
cosa ed ognuno mentisce,
eccetto che le
vostre mani
è solo
per renderle pieghevoli come argilla bagnata,
cieche come l'
oscurità,
stupide come
cani da pastori,
è per
frenarle nella rivolta
che prende
ad abbattere
il regno
degli strozzini e la sua tirannia
su questo
meraviglioso e fugace mondo
dove siamo
per un soggiorno così breve.
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Alla vita
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
Ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o
dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu
muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e
morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma
sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma
perché non crederai alla morte
pur temendola,
e
la vita sulla bilancia
peserà di più.
Nazin Hikmet